Mai come in questo momento noi pedagogisti siamo chiamati ad affrontare la grande sfida di ripensare la relazione educativa con nuove modalità e strumenti, tra cui l’ascolto attivo, canale relazionale che ristabilisce il dialogo con l’altro per riconoscerne il valore.

Nei miei corsi di comunicazione, affrontando la tematica relativa all’ascolto attivo, parto dalla differenza tra i due verbi “sentire” e “ascoltare”.

Sentire non è, al contrario di ascoltare, un atto intenzionale mentre ascoltare impegna la nostra attenzione a cogliere non solo ciò che l’altro dice, quindi il contenuto, ma anche accogliere bisogni e stati d’animo dell’altro.

Per spiegare meglio il concetto ci possiamo avvalere dell’ideogramma cinese “ascoltare”:

Tale ideogramma è composto da diversi elementi:

  • Orecchio
  • Occhio “per vedere” l’atteggiamento, lo sguardo del “tu”, l’alterità che ci sta davanti, che non è lo specchio di me stesso, non è ciò che io vorrei l’altro fosse, ma è proprio “un altro”
  • Cuore perché, parodiando il Piccolo Principe, si vede (e si sente) bene solo il cuore
  • Io
  • Tu

Per poter ascoltare dobbiamo fare spazio dentro il nostro “Io” abitabile dall’altro, in cui viene riconosciuto e accolto; in tale spazio l’Io incontra il Tu per creare il Noi, in una relazione empatica che allevia l’altro dalla solitudine esistenziale e ne accetta la diversità.

Qual è la differenza tra ascolto attivo e passivo?

Ognuno di noi ascolta in maniera inconsapevole, ma questo tipo di ascolto, definito passivo, non aiuta a stabilire un contatto con chi abbiamo davanti. Pensate a quando lavoriamo con la radio accesa o leggiamo un libro davanti alla tv: percepiamo i suoni ma non prestiamo loro alcuna attenzione e non raccogliamo nessuna informazione. Non stiamo ascoltando ma stiamo sentendo attraverso l’utilizzo automatico di uno dei nostri cinque sensi ma senza concentrarsi.

L’ascolto passivo non solo non rafforza la relazione tra le persone ma è spesso causa di incomprensioni tra i soggetti coinvolti nella comunicazione: chi ha l’impressione di non essere ascoltato si sente rifiutato e la sua prima reazione è quella di allontanarsi dalla persona che ha provocato questa sensazione.

I principali segnali di un ascolto passivo sono:

  • sguardo sfuggente
  • domande incalzanti sull’argomento della conversazione per arrivare velocemente al nocciolo della questione
  • svolgimento di altre azioni (ad esempio usare il cellulare, sfogliare il giornale, fare zapping in televisione)
  • fretta nell’offrire soluzioni e opinioni personali per chiudere la discussione prima possibile
  • giudizi dati solo sulla base delle proprie esperienze, senza tenere conto di ciò che l’altro sta dicendo.

Al contrario, l’ascolto che rende possibile la comunicazione, detto anche ascolto attivo, coinvolge una serie di abilità tutt’altro che automatiche e dà luogo ad atteggiamenti che hanno lo scopo di creare empatia con la persona che ci sta parlando. Infatti, l’ascolto attivo va ben oltre il semplice ascoltare in silenzio: richiede non solo la profonda comprensione di ciò che l’altro sta dicendo, ma anche una rielaborazione e una riformulazione di ciò che esprime allo scopo di allinearsi sulla sua stessa lunghezza d’onda, interpretarne i segnali non verbali, percepirne le emozioni e trasmettergli vicinanza, contribuendo pienamente ad ogni momento della comunicazione.

Il compito dell’educazione, specialmente in questo momento di emergenza, dove la relazione è mediata da uno schermo, deve essere quello di fare uno sforzo maggiore che sia in grado di far evolvere l’ascolto in qualcosa che possa educare l’altro.

Quando mi trovo a dover spiegare l’importanza della relazione educativa parto dall’etimologia del termine educare, cioè ex-ducere (portare fuori). Il compito principale di una relazione educativa è, quindi, tirare fuori le risorse che ognuno di noi ha dentro di sé, sempre, anche nei momenti di fragilità, una fragilità di cui non ci si deve spaventare ma che deve emergere per essere ascoltata e accolta dall’altro.