L’uomo, per natura, ha una grande capacità di adattamento.

Ciò può essere un bene dal momento che tale caratteristica può garantirgli la sopravvivenza ma anche un male, a seconda di ciò a cui esso si adatta.

Nel quotidiano questo adattamento porta, inevitabilmente, a rimanere legati alle proprie abitudini, ai propri rituali, alle cose da fare “assolutamente”, al “devo lavorare”, all’”oggi non ce l’ho fatta proprio a chiamarti”, al “sono proprio distrutta”.

In tutto ciò non ci si rende conto, oppure ci si rende conto ma non ce ne importa abbastanza, che le ore diventano giorni, poi anni e si crea un vuoto fisico e, di conseguenza, affettivo nella vita delle persone, anche se sono importanti per noi.

Solo quando qualcuno a cui noi teniamo tanto viene a mancare e quando persone a te tanto care si trovano alle prese con una sofferenza atroce ci si rende conto di ciò che si è perso e di quanto la poca frequentazione ci crei distanza tanto da renderci goffi nel consolare.

Finalmente, ma troppo tardi, ci si trova a pensare a quante volte ci si sarebbe potuti organizzare per vedersi, a quante volte il lavoro, le cose da fare, avrebbero potuto aspettare qualche ora e ci si sarebbe potuti abbracciare di più, parlare di più, veder crescere, nel tempo, chi hai tenuto in braccio appena nato invece di accontentarsi delle foto o della voce al telefono, ascoltata anche per caso.

A quel punto iniziano i rimpianti, i sensi di colpa e sono anche quelli a procurarci dolore.

Non è vero che “sai che ti penso sempre” oppure “non ci vediamo ma ti porto nel cuore” siano sufficienti a portare avanti un rapporto affettivo, è vero che i rapporti vanno coltivati, ci si deve dedicare impegno perché tale impegno è ripagato con l’affetto, con i bei ricordi.

Il nemico peggiore, quello che ci proibisce di fare le cose non è il tempo ma noi stessi.