L’elemento più importante dell’intero processo educativo è la cosiddetta dimensione comunicativa che prende forma nell’interazione tra diversi individui.

Il processo di apprendimento è assimilabile ad un flusso di comunicazione continuo attraverso il quale una singola persona, quindi l’individuo, viene inserita nella società e nella cultura in cui vive ed opera, che le corrispondono e le appartengono. Analizzata sotto questa luce, l’azione pedagogica nella sua interezza può essere studiata e interpretata avvalendosi del contributo delle teorie della comunicazione e teorie del linguaggio.

La comunicazione che ne consegue utilizza codici diversi: verbali, non verbali e paraverbali. I codici non verbali comprendono la comunicazione corporea e l’utilizzo di immagini, sia fisse che in movimento. I codici paraverbali riguardano non “ciò che dici” ma “come lo dici” e comprende: tono della voce, velocità con cui parli, volume e timbro vocale. Linguaggio verbale e non verbale sono accomunati da processi di simbolizzazione, mentre ciò che li differenzia è l’assenza della parola nei linguaggi non verbali.

L’impostazione pedagogica vede, quindi, nel linguaggio verbale l’asse centrale e imprescindibile della comunicazione umana e, in questo, si differenzia dalle teorie che lo considerano uno dei linguaggi possibili, al pari degli altri, rispetto ai quali non avrebbe alcuna reale superiorità nella formazione dell’individuo. Il linguaggio verbale è l’unico a poter essere al tempo stesso sia linguaggio che metalinguaggio[1].

Pur essendo l’educazione linguistica tematica attuale, in realtà era stata già trattata abbondantemente dalla pedagogia tradizionale che, però, la conteneva in un concetto di “primato di lingua italiana”, così come trasmesso dai classici. In tal senso essa era accompagnata dall’analisi grammaticale e logica come strumenti di miglioramento delle competenze del parlare: concezione “monofunzionale” della lingua. A partire dagli anni Sessanta questa idea prettamente tradizionale è stata sostituita da una concezione “polifunzionale” della lingua, all’interno della quale viene riconosciuta tutta la molteplicità di usi, varietà e norme prescritti in una data lingua confluendo, a ciascuna, pari dignità.

La conseguenza di ciò è stata quella di spostare l’interesse sul concetto di competenza: si è passati dalla concezione del linguaggio come prodotto, alla sua visione come processo dinamico, in cui è essenziale il ruolo di chi parla.

A questo punto l’educazione linguistica deve promuovere competenze diversificate: le varietà di uso e forme della lingua, le funzioni espressive, comunicative e cognitive che rivestono il linguaggio verbale in sé nella sua capacità di rappresentare la realtà attraverso rapporti di significazione (semantica) e di logica (sintattica).

Nel processo di educazione linguistica attribuire la giusta importanza alla dimensione comunicativa non significa solo promuovere la conoscenza e la corretta applicazione di usi e codici, ma anche favorire lo sviluppo di una civiltà del dialogo contro i rischi di una civiltà senza linguaggio in cui i confini della comunicazione vengono progressivamente ristretti al gruppo dei pari, ai membri della propria micro-comunità di appartenenza.

Il linguaggio non è, tuttavia, solo espressione e comunicazione ma anche rappresentazione della realtà e del pensiero. In tale direzione l’educazione linguistica deve promuovere e favorire una sempre maggiore padronanza del codice linguistico per un uso volto a produrre descrizioni della realtà e pensiero in forme sempre più elaborate ed astratte.

[1] è una lingua che parla di un’altra lingua (“linguaggio-oggetto”) e l’esempio che solitamente viene impiegato per chiarirne il significato è quello dell’insegnante di lingua straniera che, specialmente all’inizio del corso, utilizza la lingua madre per illustrare le caratteristiche della nuova lingua ai suoi allievi (definizione di G.Guastini)